PISA – Torna all’indomani del successo del Tardini la nostra rubrica “Pallone di-pendente” redatta per noi dalla nostra Chicca, amante delle vicende del nostro amato Pisa.
Per la precisione i millecentoventisette della scorsa sera allo stadio Tardini di Parma non sono eroi, sono semplicemente pisani. Un atto di amore anche di martedì, quasi di notte, perché si è finito di giocare alle 22:30, nell’orario più scomodo del calcio, per calciatori e spettatori.
E ci sono stati a quindici euro, più spese. Quelle normali di una trasferta: benzina, pasto, autostrada, pullman, treno o quello che vi pare.
“Me cojoni”, per rappresentare in qualche modo la meraviglia di Marco Giallini nei panni di un vicequestore di polizia romano in un celebre passaggio di un episodio della serie televisiva Rocco Schiavone. Quando il Pisa chiama, d’altronde, i pisani rispondono.
É inutile negarlo il tifo per una squadra è una malattia. Simpatico ricordare che con il termine tifo si può anche intendere una vera e propria patologia.
Infatti, il tifo o ileotifo o febbre tifoide è una malattia infettiva sistemica e acuta a sintomi generali e locali (intestino) provocata da un germe che le è specifico, il bacillo di Eberth-Gaffky del sierotipo Typhi di Salmonella enterica. É da qui che poi si è preso il termine tifoso, ossia parteggiare per qualcuno o qualcosa in modo così acceso da sembrare in preda ad attacchi di febbre, come accade a chi contrae il tifo.
Romeo Anconetani quando acquistava un calciatore diceva, con asburgico raziocinio, “non mi aspetto nulla da lui, anzi. Sono sempre convinto di aver preso un brocco. Se va bene mi gaso, se non va bene non m’ammazzo”. Per cambiare le cose c’era sempre una via di fuga, un santuario dove andare in pellegrinaggio e avere fede in un’intercessione dall’Alto.
Nella partita Parma-Pisa si sarebbe gasato nel veder giocare Idrissa Touré. Il tedesco, di mestiere centrocampista o quasi, ha un nome da romanzo. Dedizione – per rimanere in tema – febbrile, rabbia costante ed esplosiva, la voglia di non mollare mai, di attaccare e inseguire, di braccare qualunque avversario, anche a costo di rincorse inutili, covando nell’anima una sfrenata libido di vittoria. Romeo avrebbe adorato quel suo essere rompiscatole in campo, un mastino che si avventa su tutto ciò che passa dalle sue parti e se gli stanno alla larga lui li va a cercare in ogni zona del campo, cattivo e inesauribile. Per giunta ha anche tecnica; il suo gol è frutto, oltre che di mentalità predatoria, di una potenza di esecuzione eccezionale. Ha poco più di vent’anni, non trenta e passa. Vale tutto quello che pesa e ci sarà utile, molto utile.
L’azione che lo ha portato a segnare il gol che ha deciso il match (0-1), è stata una marcia trionfale, non quella relativa all’opera lirica di Giuseppe Verdi dell’Aida (inno anche del Parma Calcio), eseguita – in questo caso come nel melodramma – in quattro atti: Barba, Tourè, Torregrossa e di nuovo Tourè. Insomma, «quei bravi ragazzi» prendendo a prestito il titolo del film di Martin Scorsese. Libiamo, libiamo ne’lieti calici.