Written by 11:44 am Attualità, Eventi/Spettacolo, Pisa

Emanuele Neri ed il finevita

Sabato 14 dicembre si è tenuta, presso il palazzo dei Dodici in piazza dei Cavalieri, una conferenza con tema il finevita; al termine dei lavori, organizzati dall’Ateneo Tradizionale Mediterraneo, abbiamo intervistato il professor Emanuele Neri, preside della facoltà di Medicina dell’Università di Pisa, uno dei relatori voluti dal coordinatore dell’evento dottor Roberto Di Mitri e ci siamo fatti spiegare le sue opinioni in merito.

di Leonardo Miraglia

D.: Da un punto di vista strettamente medico, lei come si pone nei confronti del fine vita?

R.: Mi pongo spesso, nei confronti di questo aspetto, in maniera un distaccata, perché la mia specializzazione, che è la radiologia, non è una di quelle che affronta direttamente il paziente nel fine vita; o meglio, lo affronta, ma per pochi minuti; ossia per il breve arco temporale in cui il paziente viene a fare un esame diagnostico, per esempio, in funzione del follow up oncologico.

Mi preme, tuttavia, far presente un aspetto, ossia che oggi assistiamo veramente a un cambiamento epocale, nel senso che vediamo sempre più pazienti con malattia cronica e non pazienti terminali e questo è un buon segno. Vuol dire che l’obiettivo dell’oncologia, della terapia medica, di portare la malattia oncologica, a trasformarsi in malattia cronica, sta veramente accadendo. Neoplasie che una volta erano considerate killer i cui trattamenti attualmente stanno portando i pazienti ad ottenere una risposta completa alle cure. Questo veramente è impressionante, cioè questo è un segno di come sta cambiando la medicina.

D.: Se lei, comunque, dovesse prendere una decisione come medico se applicare o meno il finevita su un paziente, come si comporterebbe?

R.: Io sono d’accordo sull’idea del fine vita, quindi l’idea dell’eutanasia, ma non saprei se poi, trovandomici davanti, prenderei quella decisione come medico; un paziente terminale che decide di interrompere la sua esistenza è chiaro che come si fa a non capire una scelta di quel genere, però se poi dovessi essere io a mettere in pratica concretamente l’eutanasia per un paziente non so se sarei in grado di farlo. Francamente, credo che sia una cosa che dovrebbe essere auto autodeterminata, auto eseguita dal paziente e non dal medico stesso.  Il medico ha studiato per salvarla la vita, non per toglierla; questa promessa deve essere mantenuta fino all’ultimo.

D.: Quindi quello che una volta si chiamava accanimento terapeutico? Come si pone da questo punto di vista?

R.: Una volta i familiari di un paziente oncologico terminale chiedevano di portarlo a casa e farlo morire a casa perché si aveva quella consapevolezza e la rassegnazione che non c’era più niente da fare. E allora si diceva che, se deve finire almeno che almeno finisca tra le mura di casa insieme ai familiari in una situazione di accoglienza; invece oggi si tende da un lato a continuare la terapia fino all’ultimo nella speranza che succeda qualcosa di positivo e dall’altro c’è una tendenza a delegare: dato che il paziente è in cura presso il servizio sanitario nazionale, facciamolo morire in ospedale e questo è il ruolo delle cure palliative, dove si cerca di togliere il dolore al paziente.

Perché in ospedale la morte viene gestita ovviamente in maniera diversa, in maniera più razionale dal reparto di cure palliative dove il paziente riceve una sedazione e muore senza accorgersi però è una decisione che è ovviamente molto soggettiva, famiglia per famiglia, paziente per paziente.

D.: Il fine vita come si integra nell’aspetto più ampio della bioetica?

R.: Non sono un esperto di bioetica ma come uomo penso che appunto sia una decisione assolutamente soggettiva, non c’è linea guida. Sicuramente la medicina oggi. Sta sta progredendo pe far sì che ci siano sempre meno esigenze di fine vita, nel senso che il fine vita sarà sempre più un fine vita naturale, legato alla vecchiaia e non alle malattie.

La prospettiva è che fra vent’anni, trent’anni, ci sia una vita media ben superiore rispetto a quella di oggi che si aggira intorno ai 70 e passa anni e che arrivi fino a 80 a 90, quindi 100, 120 anni perché ormai con la medicina predittiva siamo in grado di prevedere le malattie che uno svilupperà in modo tale da non fargliele insorgere; quindi, si morirà sempre di più per vecchiaia che non per malattie.

Perciò, il concetto di fine vita cambierà; io penso che fra venti, trent’anni, parlare di fine vita vorrà dire parlare soprattutto di un termine della vita, cioè di un decadimento naturale della vita, non di un fine vita forzato da una malattia.

Diciamo che noi oggi parliamo di qualcosa che fra venti, trent’anni probabilmente non esisterà più. Ci sarà un fine vita diverso, quello che noi chiamiamo oggi fine vita lo associamo ad un evento non desiderato, ad una malattia che porta alla morte.

L’inevitabilità della morte sta nel nostro stesso esistere, dato che ovviamente si nasce e si muore, ma morire per vecchiaia, per un decadimento naturale del corpo è un conto, mentre morire per una malattia oncologica, per una malattia degenerativa, è un evento di natura più traumatica che ovviamente impone una decisione di fine vita per alleviare il dolore; ma un domani, morire nel sonno perché il cuore smette di battere dato che è invecchiato sarà un fatto naturale che magari accadrà a 120 anni, che disegnerà un paradigma completamente diverso.

Last modified: Gennaio 2, 2025
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